Castello Di San Giorgio O Della Marina Di Tusa

Castello Sicilia, Messina - Tusa

Epoca
XII Secolo
Visitabile
NO
Proprietà
Privata

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Descrizione

Gli ancora corposi fabbricati della fortezza si ergono sulla scogliera con cui termina una rada naturale. Fino agli inizi del XVIII secolo l’abitato coincideva esattamente con il complesso edilizio, dato dai rimaneggiamenti delle torri, da alcuni ambienti residenziali, da attrezzature di deposito e da stalle che si articolavano sia intorno al baglio meridionale che lungo una corte settentrionale; facevano eccezione il fondaco ed i magazzini del caricatore, individuati dall’iconografia storica sempre al di fuori della compatta massa castrense. Odiernamente, questo sistema organico è stato sopraffatto dalla completa trasformazione delle fabbriche attorno al baglio meridionale e dall’asfittica edificazione della marina; tuttavia il blocco degli originari corpi turriti riesce ancora a svettare sul resto dell’abitato mentre ai piedi della sottostante propaggine rocciosa s’infrange il mare, spiegando come tale struttura fortificata sia nata a presidio di secolari traffici marittimi che potrebbero affondare le proprie radici persino nella presenza dell’emporio della vicinissima Alesa, fino ad essere mutuati nelle attività portuali del caricatore, riferimento sicuro delle comunità dell’entroterra che vi riversavano una parte della loro produzione frumentaria, vinicola e silvo-pastorale, attraversando la “sella del Contrasto” e la fiumara di Tusa.

Dalle attuali fabbriche del Castello si possono intrattenere rispondenze visive dirette con le fortezze Tusa, Motta d’Affermo, Caronia e Serravalle, oltre che con le torri costiere di Scillichenti, Raisgerbi e Torremuzza.

Il nucleo del Castello, disponendosi a cesura tra due corti, si orienta da Ovest ad Est; la parte più occidentale è occupata da due livelli superstiti del Mastio, di cui il primo si risolve in un unico ambiente voltato a botte ed il secondo, già crollato e recentemente restaurato, reca nei paramenti murari le tracce di due volte a crociera in mattoni di laterizio, di canalizzazioni per una cisterna e di feritoie contornate da conci in pietra lavica; nello spessore murario sono contenute le rampe delle scale.

Procedendo verso Est, appaiati, seguono due ambienti vestibolari che hanno ancora elementi originali, come il portale principale con arcata ad ogiva su peducci, medievali murature pseudo isodome in grossi blocchi d’arenaria ed una cinquecentesca volta a botte in mattoni di laterizio orditi a spina di pesce.

Superiormente era una grande sala che oggi è divisa in due parti per il frazionamento della proprietà.

Infine, il corpo di fabbrica più orientale si erge con morfologia che richiama una torre rimaneggiata il cui piano terreno è inteso ancora come “cappella”.

Da tramontana, a questo nucleo originario, nel XVII secolo si attestavano edifici di cui non restano che un vasto magazzino voltato a botte, uno scalone aperto sulla corte settentrionale ed un brano della cortina esterna sormontato da una merlatura fuciliera.

Un baluardo, alla cuspide Nord, raccorda le due fiancate di mura che cingono la parte sommitale della rupe con murature che sono in pietrame d’arenaria legato con malta di calce.

Pur non avendo esplicite referenze archeologiche, appare ragionevole ipotizzare un uso di questo lembo roccioso proteso sul mare sin dall’antichità, vuoi per collocarvi un fano atto alle segnalazioni necessarie per la nautica, vuoi per il distaccamento di un presidio militare destinato alla difesa litoranea.

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Storia

 La storia di questo sito e della fortezza che vi s’impiantava è stata in larga parte determinante per le fortune di Alesa e di Tusa, considerando la fondamentale funzione economica dell’approdo, per molti secoli alla base della vitalità commerciale non solo delle comunità locali ma anche dei centri dell’entroterra che, attraverso la fiumara, si approvvigionavano di merci, esportando quelle da loro prodotte. Le dinamiche dello scambio mercantile attraevano anche spregiudicati e lontani operatori che proprio in questo emporio portuale radicavano i loro interessi, lasciando significative tracce documentarie della loro presenza.

 

Nel 193 a.C. un gruppo di speculatori Italici interessati ai grossi contingenti di grano convogliato verso il porto di Alesa, facevano installare nella città un’epigrafe dedicatoria a L. Cornelio l’Asiatico e, sul finire dell’età repubblicana, lo scalo alesino figurava tra gli otto porti siciliani in cui era costituito l’ufficio del Portorium, istituito per l’imposizione dei dazi d’importazione ed esportazione, nella misura del 5% del valore delle mercanzie.

La pregnante importanza del sito veniva confermata da Rggero II che, nel 1145, donava al vescovo di Cefalù la metà dei proventi “[…] de portu tonnariam et totam piscariam maris ad opus suum, et eorum qui sunt in eo, et propria navigia sua”, privilegio che nella conferma di Carlo d’Angiò, datata 22 febbraio 1266, assumeva connotazioni rilevanti per la storia feudale del territorio quando si sosteneva che tale attribuzione era goduta dalla Cattedra Vescovile “a tempore cujus non extat memoria, usque ad tempus quo Henricus de Vigintimillis […] tenebat dictam ecclesiam occupatam”.

Un’importante citazione del 1319, ovvero nella piena fioritura del potere di Francesco I Ventimiglia, potrebbe aprire spiragli inediti sulla verità storica inerente la costruzione del castello, poiché in pieno conflitto angioino-aragonese, quando le coste erano infestate da ricorrenti e sanguinarie scorrerie francesi, si notava la nostra località per il suo caricatore “nuovamente aperto”, episodio che indirettamente attesta la garanzia di un adeguato deterrente militare sulle attività portuali e, quindi, la vigilanza di una vortezza, la cui edificazione o ristrutturazione sarebbe stata promossa dall’audace e lungimirante feudatario per l’economia della Contea.

L’avvicendamento delle dinastie regnanti non sembra variare il ruolo del porto e della dogana di Tusa che nel 1396 vengono puntualmente confermati tra le pertinenze del Vescovo di Cefalù.

Con riferimento ancora alle attività marinare, non sappiamo come e quanto abbia potuto influire nel merito il ruolo di Grande Ammiraglio ricoperto da Giovanni Ventimiglia, il valoroso condottiero che verrà nominato Marchese di Geraci nel 1433, ma la gabella delle cantarate, il dazio cioè sull’esportazione delle merci a peso dal porto definito caricatore di Tusa, già goduta dal Vescovo, almeno dal 1475 diveniva di competenza feudale e, a seguito delle travagliate vicende del marchese Enrico, era confiscata per fellonia il 14 luglio 1487, indi riscattata e riconcessa a Filippo l’11 ottobre 1490. Il successivo passaggio, conseguente all’enorme versamento dovuto alla corona per tale riscatto, era l’affidamento della castellania, in tale occasione detta “castri terre Tuse inferioris numcupati Sancti Georgi iuxta mare”, a certo Leonardo Maccagnone.

Già nel 1506 il caricatore di Tusa risultava in promiscuità giurisdizionale tra l’Ufficio del Maestro Secreto e l’Università locale, rendendo alla Regia Curia onze 32.10.7 .

Da quest’epoca al castello apparivano interessati, a vario titolo, cittadini di Tusa, e nel 1523, Polidoro Filone succedeva nella carica di credenziere al presbitero Giovanni Guglioso, personaggi direttamente o indirettamente impegnati nel quadro delle consorterie ventimigliane.

Il 22 novembre 1578, Gegorio Ferrara ed Antonio Ficarra, guardiani ordinari del castello della marina, venivano sorpresi dai Turchi i quali “hanno fatto invasione”; per la loro negligenza si ordinava di carcerarli nella “terra di Tusa” in attesa della loro traduzione al castello a mare di Palermo.

Il 12 gennaio 1582 s’inoltrava una disposizione ai Giurati di Tusa, la quale “teni in lo suo territorio nominato li penduti et la lavanca due guardii estraordinari, l’una di piedi e l’altra di cavallo”, per le quali si pagavano sei onze al mese, e che d’inverno “mal volentieri serveno per li fridduri della notte”, affinché si togliessero tali guardie, “mantenendo quelle nelle casi et turri, con avvertenza alle guardie che stiano con vigilanza et fazino li soliti segni cioè il giorno con fumo et la notte con fuoco”.

Interpretando letteralmente quest’ultimo documento, vale la pena sottolineare la possibilità che i guardiani adoperassero, in alternativa a luoghi eminenti e battuti dalle intemperie, ripari all’interno di “case et turri”, più o meno esistenti lungo la fascia litoranea del territorio tusano, attrezzature che, in tempi d’imponderabile minaccia turca proveniente dal mare, si configuravano come masserie fortificate e naturale presidio per le circostanti attività produttive.

Il 22 febbraio 1622 s’ingaggiava mastro Francesco Cantarino quale appaltatore delle opere che, secondo la clausola contrattuale, entro due anni e otto mesi, avrebbero fatto perdere al castello il suo carattere di rude essenzialità militare per assumere quello di una fastosa dimora feudale: infatti, Francesco III Ventimiglia, investito solo da qualche mese Marchese di Geraci, aveva lucidamente pianificato tale trasformazione incaricando Antonino Conforto, capomastro e progettista di Castelbuono, di redigere un elaborato grafico che sintetizzasse una vera e propria rivisitazione funzionale del vecchio maniero, attraverso le realizzazioni di un ampio scalone esterno, di un dammusetto (loggia) al termine della scala, di una grande sala nuova da impostare al di sopra della volta del vestibolo d’ingresso, ottenuta raccordando il volume del mastio con quello della torre orientale, di una camera “dove oggi si chiama la turri”, di un’altra camera “verso levanti”, e di un’ulteriore camera nuova sopra il “magazeno di Narcisi de Oddo”, tutti ambienti voltati e dotati di ampie finestre, ottenute sbrecciando anche i corpulenti muraglioni delle torri medievali. In realtà i lavori si protraevano più a lungo del previsto per la morte di Francesco Cantarino, al quale subentravano, il 17 giugno 1624, i figli Clemente ed Onofrio, col consenso del Marchese e alle stesse condizioni contrattuali già sottoscritte da loro padre due anni prima. A testimonianza delle prevedibili difficoltà, del notevole quantitativo di lavorazioni da effettuare, e della pressante vigilanza esercitata personalmente da Francesco Ventimiglia, il cantiere risultava ancora aperto nel 1631, quando mastro Onofrio riceveva 30 onze argentee “ad effettu expediendi fabbbricam castri marittime huius terrae, come per ordine de lu signor Marchisi dato in castro die octavo presentis mensis” (agosto).

Consuntivamente, le trasformazioni attuate durante il terzo decennio del Seicento consistevano nella saldatura muraria che livellava e fondeva i corpi turriti in una compatta massa volumetrica con andamento Est-Ovest, e nell’innesto ortogonale a questo nucleo di una propaggine edilizia che, impegnando una parte della corte settentrionale, faceva da sponda ad un monumentale scalone esterno attraverso il quale, con una suggestionante veduta sul paesaggio della rada, si guadagnava l’accesso alla nuova grande sala del secondo livello, altrimenti raggiungibile solo dall’angusta scala annegata nello spessore murario del mastio.

Un’autentica svolta nella storia della Marina accadeva con l’avvento della famiglia Della Torre che, subentrata ai Ventimiglia (1669), intraprendeva una campagna volta ad attrezzare il Caricatore ed il Castello. La prima iniziativa messa in atto, oltre che appagare i locali operatori commerciali, rappresentava un valore aggiunto all’attrattiva che l’approdo avrebbe esercitato per i navigli in cerca di acqua dolce: il 16 aprile 1670 Francesco Lauretta, mastro di Caltagirone, stipulava una convenzione per la posa in opera dell’acquedotto necessario a condrre “l’acqua bona vicino lo loco di Don Nicolò […] insino a lo baglio di detto castello, dove è la scala che si acchiana a lu principio di detto castello, per farsi la fontana, e di là, potersi dividere per parti di detta acqua, per farla andari alla cocina, allo baglio antecedenti, et dello baglio se ni passa in una fontana con beveratura per servizio dello fondaco”, tutto secondo le indicazioni progettuali dettate da certo Frate Placido, ingegnere dell’ordine dei Cappuccini.

Nello stesso periodo, e più esattamente a partire dal 1717, Antonio Gravina e l’abate Simone Gioangallo cominciavano a realizzare edifici prossimi alla battigia, nella contrada Piana, ossia nella zona odiernamente denominata Gravina, fabbricati che in un primo momento erano funzionali allo sfruttamento di estesi vigneti e che, in una seconda fase, diventavano luogo di amena villeggiatura, con finestre, balconi e portali finemente intagliati in pietra ed evidentemente concepiti per attestare l’adozione di un’istanza rappresentativa della famiglia committente. I Gravina istituivano persino un beneficio per la fondazione di una chiesetta da dedicare alla Madonna del Rosario, aggregandola alla loro masseria.

I fasti dei Della Torre avrebbero avuto durata effimera sulla loro dimora: un’ulteriore e drastica trasformazione si portava a compimento nell’autunno del 1742, quando Ercole Branciforte, Principe di Scordia et arrendatario dello stato di Tusa, lungi dall’utilizzare il castello come residenza personale, ne declassava il ruolo relegandolo a semplice attrezzatura per il deposito di derrate e mercanzie: per tale ragione mastro Antonino Bruno, murando porte e finestre di due camere voltate e sovrapposte, le trasformava in silos.

Nel 1783 i Principi di Scordia organizzavano la ristrutturazione del caricatore sottano, facendo diroccare e ricostruire le tre arcate che ne scompartivano lo spazio interno ed i corrispondenti contrafforti esterni, mentre, nel 1791, impegnavano ingenti risorse per le cospicue riparazioni da apportare al caricatore soprano, al fondaco maggiore ed a quello minore, al trappeto, alle cantine e ai muraglioni orientali del castello.

Di fatto questi lavori rappresentavano le ultime sostanziali attività edilizie messe in atto per garantire la sopravvivenza del castello: il XIX secolo vedeva gradualmente tramontare per la marina di Tusa l’epopea della nautica mercantile, cui assestavano il colpo di grazia l’apertura dello stradone litoraneo carrabile (1852) e l’avvento della ferrovia (1893).
Il castello, rimasto soltanto un grande fabbricato senza alcuna specifica funzione, cadeva in stato di totale abbandono: nel 1878 era in potere dei Turrisi, ma qualche anno dopo, a seguito di un’asta pubblica, veniva attribuito ai Salamone.

Bibliografia

 "Tusa, dall\'Universitas Civium alla Fiumara d\'Arte", Angelo Pettineo, Armando Siciliano Editore 2012

 

Indirizzo: Frazione della Marina, centro urbano, via Castello.

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